Omelia XIII domenica dopo Pentecoste, rito ambrosiano

Gesù compie un gesto davvero inusuale – fatto con molta irruenza, quasi violento – che però dice più di quello che immediatamente ci può suggerire. Per comprendere meglio, cerchiamo di chiarire l’ambientazione in cui l’episodio si inserisce.

 

Il tempio per Gerusalemme, per gli Israeliti, è “il” luogo della presenza di Dio. E’ attorno al tempio che si è costruita la nazione; è attorno alla presenza di Dio che si è costruita l’identità di quel popolo. “Dio è con noi” è il punto di partenza. Se vi ricordate il racconto del libro dell’Esodo, il punto di partenza è: “Io sono con voi. Io sono colui che sono e mi interesso di voi”. Tutto inizia da questo: Dio è con il Suo popolo; Dio lo accompagna; Dio è nella tenda che attraversa il deserto; Dio si stabilisce nel tempio e così via. Anche attraverso le distruzioni del tempio,  Dio trova il modo per tornare, per riprendere possesso di quel luogo e attorno si costruisce la nazione.

Abbiamo quindi un popolo che riconosce nel tempio il luogo nativo della propria esistenza.  Israele  nasce solo in quel luogo, solo perché c’è Dio.

 

Dall’altra parte, il tempio è il luogo dove si offrono i sacrifici di animali, come le colombe, che “rappresentano” l’offerente: si offre il loro sangue con l’intento di donare una parte della propria  vita.

 

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Nella storia di Israele, però, risulta chiaro che molte volte il senso autentico del tempio e del sacrificio è stato tradito. I profeti più e più volte hanno detto: “Guardate che state deragliando dal binario giusto!”. Accadeva infatti che la presenza del tempio – e di Dio nel tempio – veniva presa come scaramantica, quasi si trattasse di una sorta di potente amuleto: c’è Dio, quindi noi siamo a posto; finché c’è Lui ci protegge. Voleva dire allontanarsi sostanzialmente dal concetto di partenza, dal momento che la presenza di Dio diventava puramente strumentale.

 

Inoltre era facile che il culto degradasse, nel senso che l’offerta, ad esempio di una pecora, sembrava bastasse a “pareggiare i conti”; non si sentiva più necessità di doversi “anche” convertire.

 

Dobbiamo ammettere che si tratta di due tendenze sempre attuali. Anche nel corso della storia della Chiesa, come nella vita di ogni credente, non è difficile che ci siano momenti nei quali ti accorgi che la presenza di Dio diventa una specie di feticcio scaramantico.  E allora porti in casa tanti oggetti sacri per proteggerti, ma non per convertirti, e il culto che fai sono parole, sono gesti – magari doni anche soldi per sentirti più bravo –, ma in te non c’è nessun tipo di cambiamento.

C’è tutta una linea profetica che va contro questo modo di interpretare  la presenza di Dio e il culto. E Gesù certamente si inserisce in questa ottica per dire: “Cambiate! Il culto vero è quello del cuore. Non potete muovervi in questa direzione. E’ necessario purificare queste cose. Non presenza senz’anima! Niente sacrifici esterni senza cambiamento di vita!”.

 

Ma c’è di più. Quando ci si rende conto che questo episodio si colloca subito dopo l’ingresso in Gerusalemme e pochi giorni prima della Passione di Gesù, si intuisce che il suo significato porta decisamente oltre.

Gesù butta fuori dal cortile del tempio tutti gli animali che servivano per il sacrificio: resta solo Lui, che in realtà è il nuovo sacrificio. E’ il momento di un passaggio decisivo…

 

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Omelia XIII domenica dopo Pentecoste, rito ambrosianoultima modifica: 2010-08-27T21:28:00+02:00da fragiampaolo
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