Parrocchia sant'Antonio di Padova alla Brunella, Varese

Omelia domenica in albis 2010, rito ambrosiano

L’incredulità, che l’apostolo Tommaso vive, è una realtà che fa parte del cuore dell’uomo. Ciascuno di noi sa benissimo che, pur essendo credenti, spesso, all’interno della nostra esperienza, noi sperimentiamo delle “bolle” d’incredulità, momenti nei quali non riusciamo più a credere pienamente. Ascoltiamo una Parola e quella Parola non riesce ad entrare dentro di noi, cambiandoci. Sappiamo che succede, nel cuore di tutti: non c’è credente che non abbia sperimentato, in un momento o nell’altro della propria esistenza, una fatica del genere. Perché l’incredulità fa parte dell’uomo: noi non ci fidiamo di tutto e di tutti. Anzi, imparare a fidarsi è una di quelle conquiste che rendono l’uomo tale. Allora, bisogna lavorare tanto per poter arrivare a dire: “Signore, io mi fido davvero di te”.

 

Questa incredulità, che sta dentro nel cuore di ciascuno, è ben rappresentata da Tommaso, che pure è un discepolo, che pure ha fatto il cammino, per tutto il tempo, con Gesù. Tuttavia si ritrova come bloccato di fronte all’annuncio che tutti gli altri gli stanno dando: “Abbiamo visto il Signore!”. Non si fa venire nemmeno qualche dubbio; è ostinato nel suo rifiuto: “Io, se non tocco, non credo”. E questo “non credo” risuona dentro nel cuore dell’uomo. Tommaso esprime semplicemente qualcosa che ciascuno di noi sperimenta, in momenti diversi della vita. E che alcuni nostri fratelli vivono come nota dominante della loro intera esistenza. Ci sono alcuni che fanno del non credo” la caratteristica della loro vita; perché hanno bisogno di toccare, di vedere, di sentire.

Ora, siccome anche noi facciamo l’esperienza di questa fatica, siamo chiamati a vivere, rispetto ai nostri fratelli che stabilmente non credono, un atteggiamento di incontro, di misericordia; non certo di giudizio. Per lo meno non del giudizio nel senso di distacco e condanna senza appello, come spesso intendiamo. La comprensione della difficoltà dell’altro deve albergare dentro di noi, perché sappiamo che credere è un miracolo. Quando noi guardiamo la nostra incredulità e guardiamo la nostra fede, ci accorgiamo che la fede è sempre un miracolo. Proprio perché dobbiamo ammettere che la fede è un miracolo dentro di noi, non possiamo esigere che l’altro la condivida. Tu puoi cercare l’altro, puoi accompagnarlo. Ma rispetti l’altro nella sua fatica, perché  ti rendi conto che il tuo dire di sì non sai bene da che parte è arrivato: a volte non riesci a dire perché credi. Se uno dovesse chiederti: “Perché credi?”, la maggior parte di noi non saprebbe dare una risposta. Non perché non esiste risposta, ma perché è qualcosa di talmente profondo e quasi impossibile da esprimere che ti accorgi che è veramente miracoloso poter dire: “Gesù è risorto!”. E tutte le volte che lo dici è un miracolo che si rinnova. Peccato che non ne siamo sempre consapevoli, ma è così: è sempre un evento miracoloso.

Ora, il rispetto per la fatica dell’altro non significa disinteresse: se non crede sono affari suoi, lo lascio stare e fine della discussione. Ovviamente, non è questo che ci viene chiesto dal Vangelo. Quello che ci viene comunicato, invece, è la capacità, nel momento in cui dici: “Io credo nel Risorto”, di essere trasformati a Sua immagine; a immagine di Colui che è venuto a “cercare chi era perduto”, a cercare “non i sani ma i malati”. La seconda lettura ci diceva che noi siamo stati “sepolti con Cristo e siamo risorti con Lui”. Noi siamo stati  nuovamente creati, a Sua immagine. E’ iniziato in noi un processo che piano piano, tutte le volte che noi impariamo a dire di sì, ci rende sempre più simili a Lui. Anche in questa Sua ricerca di ogni persona; anche in questo Suo non accontentarsi mai. Anche in questo Suo vedere il peccato dell’uomo eppure, caparbiamente, sempre e di nuovo, morire per quest’uomo, donarsi interamente.

 

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Omelia domenica in albis 2010, rito ambrosianoultima modifica: 2010-04-15T12:02:00+02:00da
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